L’architettura del cosiddetto “3+2”, la riforma universitaria varata nel 1999, ha modificato profondamente gli atenei senza riuscire però a raggiungere i risultati sperati: dopo dodici anni i numeri certificano il sostanziale fallimento di un sistema nato con l’obiettivo principale di anticipare l’ingresso dei nostri neolaureati nel mondo del lavoro, soprattutto per colmare il gap con l’Europa. Lo dimostra anche l’aumento delle iscrizioni ai corsi di laurea a ciclo unico – come Medicina e Giurisprudenza – che negli ultimi cinque anni sono cresciute circa del 10 per cento (con un’incidenza sul totale degli iscritti che è passata dal 6,4 per cento del 2005/2006 al 16,1 per cento del 2009/2010).
L’obiettivo mancato
Dati alla mano, il “3+2” mostra tutte le sue criticità. Come sottolinea Roberto Ciampicacigli, direttore di Censis Servizi, i numeri certificano il flop: «L’altissimo tasso di passaggio di neolaureati di primo livello che s’iscrivevano alla magistrale (specie nei primi anni di riforma, ndr) doveva suonare come un campanello d’allarme: nell’anno accademico 2005/2006 questo tasso è stato dell’81,1 per cento e l’ultimo dato disponibile – relativo all’a.a. 2009/2010 – ci dice che il 54,3 per cento dei laureati di primo livello s’iscrive ad un corso magistrale. Poco più di uno studente su due». In definitiva l’obiettivo principale della riforma – vale a dire anticipare l’ingresso dei laureati nel mondo del lavoro – non è stato raggiunto: «Oggi» continua Ciampicacigli «ci si riesce a laureare in meno tempo rispetto al vecchio ordinamento, ma il corso dura solo 3 anni rispetto ai 4 o 5 precedenti: questo, dunque, rappresenta un obiettivo raggiunto solo in parte».
La rimonta del “ciclo unico”
La progressiva diminuzione del tasso di passaggio dalla triennale alla magistrale, soprattutto a partire dal 2005, dipende da almeno tre fattori che concorrono a questo risultato, come spiega Ciampicacigli: «Ci si iscrive di meno alle magistrali o perché si sta già facendo un percorso accademico a ciclo unico, o perché si sceglie di puntare direttamente su un master di primo livello, oppure perché si è talmente sfiduciati nell’esito formativo che si decide di non continuare gli studi». In base ai dati che fornisce il Miur per successive elaborazioni statistiche, però, questo fenomeno non può essere “misurato” compiutamente: l’Anagrafe degli studenti presenta una certa “opacità” e non si può avere accesso al monitoraggio completo e puntuale che segue gli universitari nel corso di tutta la loro carriera accademica. In definitiva si ragiona sui numeri, non sulle persone.
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