Per nessun sapere come per la medicina la parola è tanto importante.
Lo scrive Luca Serianni, storico della lingua della Sapienza di Roma, in una sua importante pubblicazione sul linguaggio medico (Un treno di sintomi, Milano, Garzanti, 2005).
È da affermazioni come queste che si evince la matrice profondamente umanista del sapere medico, che intrattiene con la lingua un rapporto da sempre strettissimo. Sono infatti vincolati all’espressione linguistica la relazione di cura, la nomenclatura tecnica sia classificatoria che descrittiva, i neologismi medici e il loro migrare nel vocabolario comune (studi recenti hanno mostrato come la terminologia medica sia il linguaggio settoriale che maggiormente ricorre nella lingua standard, quella di tutti), la divulgazione scientifica, il rapporto così frequente tra medicina e letteratura (si pensi al linguaggio medico usato da Dante nella Commedia: tico «tisico», idropesì, omor «umore»; ma ancor prima da Joacopone da Todi nella sua straordinaria O Segnor per cortesia che in dieci quartine espone una rassegna di patologie che rappresentano un documento importantissimo per il sapere medico medievale), i medici letterati e i romanzieri che scrivono di medicina, le patologie psichiche che hanno un sintomo primario nel linguaggio.
Ed è la lingua a segnare in medicina ogni cambiamento di paradigma, dalla scienza medica di Guglielmo da Saliceto, che si distingue non soltanto per le novità lessicali ma anche per le strategie stilistiche che mutano in relazione alla materia trattata, alla rivoluzione di Vesalio, che nel De humani corporis fabrica, pubblicato a Basilea nel 1543, opera un radicale rinnovamento della terminologia anatomica, sino agli anglismi che caratterizzano la medicina d’oggi.
Passando dalla medicina alla clinica, per quanto concerne il rapporto strettissimo tra patologia e lingua, la psicopatologia del linguaggio è oggi un ambito di ricerca problematico, e questo a partire dai termini implicati: “psicopatologia”, che viene usato ormai internazionalmente per indicare oggetti, settori e pratiche diverse e inassimilabili; “linguaggio”, che appare come un concetto diffratto, astrattizzante e declinabile. A meno di attuare una operazione di rimozione rispetto alla problematicità della definizione univoca degli stessi termini che dovrebbero – quantomeno – tratteggiare il perimetro di un sapere, le ricerche sulle lingue patologiche pongono a priori alcune questioni euristiche. Ne cito soltanto alcune:
1) quale punto di vista adottare rispetto al concetto stesso di lingua patologica? Considerarla una grammatica ‘a parte’, la cui devianza va misurata attraverso il confronto/riscontro con gruppi di controllo normotipici o, fenomenologicamente, una forma d’espressione la cui organizzazione va decriptata e compresa al netto dei termini di paragone?
2) quale uso fare delle diagnosi? decidere in buona sostanza di ignorarle e derivare classi diagnostiche ‘seconde’ e trasversali dal sintomo linguistico? usarle come indicatori forfettari o invece come classificazioni in toto fededegne rispetto all’espressione linguistica?;
3) considerare il rischio che alcune terapie farmacologiche incidano sull’espressione linguistica invalidando o relativizzando i risultati delle ricerche o ignorare la questione?;
4) da dove e come derivare i testi oggetto di studio? preferibilmente da materiali d’archivio o piuttosto da indagini sul campo e, in questo secondo caso, come concretamente procedere, quale setting predisporre per il dialogo, quale il discorso?;
5) nel caso si sottopongano questionari ‘a distanza’, è produttivo che il linguista che si occupa di psicopatologia del linguaggio non conosca i pazienti, – banalmente – non parli con loro?;
6) è plausibile che il linguista che si occupa di psicopatologia del linguaggio, anche lavorando in consorzio con medici, ignori la medicina, almeno nella specificità della patologia che indaga?
7) è vantaggioso che non abbia fatto ‘vita di reparto’ ignorando le condizioni reali da cui i materiali linguistici spesso derivano, le dinamiche gruppali che si innescano durante le lungodegenze, ruoli e autorappresentazioni, pensieri e discorsi, e insomma è produttivo – e in quali termini – che operi sui testi ‘da fuori’, in campo sterile? 8) è corretto considerare i testi patologici come oggetti linguistici che non hanno bisogno di una metodologia specifica e unicizzante che da essi derivi?
9) è corretto applicare ai testi patologici una metodologia elaborata a priori?
10) quali sono gli effettivi vantaggi delle indagini ‘a campione’ rispetto all’analisi del ‘caso’?
Tale elenco di questioni centrali a voler domostrare come il rapporto tra lingua, vita, salute è da sempre centrale, come mostra bene Salimbene nella Cronaca n. 1664: «[Federico II] volle sperimentare quale lingua e idioma avessero i bambini arrivando all’adolescenza senza aver mai potuto parlare con nessuno. E per ciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dar latte agli infanti […] e con la proibizione di parlare loro. Voleva infatti conoscere se parlassero lingua ebrea, che fu la prima, oppure greca, o la latina, o l’arabica; o se parlassero sempre la lingua dei loro genitori, da cui erano nati. Ma s’affaticò senza risultato, perché i bambini morivano tutti».
A cura di Raffaella Scarpa-Docente Università di Torino – Presidente Gruppo di Ricerca Remedia (lingua medicina malattia)