Il regalo di Natale di quest’anno si chiama realtà. Una realtà dura, a tratti spaventosa, e che non ha più scuse. È vero, l’economia di mercato globale vive una fase difficile, che dovrà fare i conti con la recessione, con l’alta disoccupazione strutturale, con minore benessere o vera e propria povertà. Non succede solo in Italia, e i più laici ammettono addirittura che potrebbe trattarsi di una crisi del modello di sviluppo che ha costruito l’occidente. In mezzo a questo guado, l’Italia si trova nuda, quasi in balìa degli eventi.
Ora non c’è più Berlusconi a giustificare un paese adolescente che non voleva diventare grande. Non c’è più il simbolo e il parafulmine di tutte le nostre responsabilità, mentre un’analisi non autoassolutoria del fenomeno politico Berlusconi non è ancora stata formulata. Di buono resta che oggi tutti i nodi sono al pettine: il paziente Italia è grave e si muove lento e impacciato in un modo globale che va a velocità schizofreniche. Da un lato, la crescita e il progresso hanno i ritmi vorticosi della Cina e del lontano Oriente. Dall’altro, le democrazie mature soffrono tutti gli imbarazzi, le retoriche e le poche e confuse idee della vecchia Europa: in cui tolto di mezzo il nano Berlusconi, neanche Merkel e Sarkozy appaiono dei giganti. L’America, epicentro naturale di una crisi del modello di sviluppo di cui è sempre stata avanguardia, è comprensibilmente concentrata su di sé, mentre nel 2012 viene sottoposto al voto il primo mandato di Obama. Le rivolte arabe, che un anno fa esatto erano promessa di primavera e democrazia, oggi mostrano la faccia di una nuova élite islamista e pongono un’incognita – una in più – sugli equilibri del pianeta.
Intanto i negozi del centro nelle nostre città sono vuoti, i commercianti scuotono la testa e quando è il momento di pagare fanno sensibili sconti. I saldi sono già ampiamente iniziati, assecondando necessariamente paure e ristrettezze. Qualcuno lo annuncia addirittura in vetrina: meno venti o trenta per cento su tutto. La povertà non è ancora un’epidemia ed è pur vero che i ristoranti sono spesso pieni, ma certo il germe circola. In molti pensano e ormai accettano che in futuro staranno peggio di come sono stati in passato. Il domani e il progresso, insomma, hanno finito di essere sinonimi. Gli anni che ci aspettano sono piuttosto annunciati da parole come spread, recessione, austerità, debito pubblico che per le strade si traducono in salari fermi da un pezzo, in prezzi che intanto sono molto cresciuti, in parenti e conoscenti che perdono il lavoro.
A queste festività l’Italia si affaccia mostrando simboli stantii. Invece di guardare avanti e di capire, insieme, cosa concretamente serve per stare nel mondo che verrà, si ripercorrono riti, prassi, divisioni e linguaggi logori, che vengono dal passato. Più tasse, più scioperi, articolo 18, riforma delle pensioni da ridiscutere. Sembra che non si veda che nessun controllo dei conti pubblici ci salverà, se non crediamo davvero alla crescita. E quasi non si mette a fuoco che il problema dell’Italia non è non licenziare, ma piuttosto non chiudere e non finire a prezzi da saldo nelle mani della Cina.
È una reazione emotivamente comprensibile, perché illude di poter riportare nei confini del conosciuto – del passato, appunto – ciò che invece è per definizione ignoto, perché riguarda il futuro. Ma questa volta non è il 1992 di Amato e Ciampi, con l’obiettivo dell’Europa da raggiungere costi quel che costi. E non sono nemmeno i prima anni Duemila delle grandi manifestazioni in cui temi sindacali e “globalizzazione responsabile” trovavano posto nelle stesse piazze.
Nel domani che possiamo immaginare oggi – è bene dirselo con franchezza – la parola “posto fisso” diventerà definitivamente patrimonio del ricordo, e ciò non dipenderà dalla legislazione sul lavoro ma da cicli e da modelli economici che nascono, per imporsi, lontano da qui. La povertà e la disoccupazione saranno evidenti come mai prima per la maggioranza delle generazioni occidentali, e da Europa e Italia è doveroso aspettarsi un pensiero e un’azione forti sul welfare, perché esso sia reale e sostenibile per i tempi che corrono. Chi ha il coraggio e la voglia di fare impresa e provare a creare ricchezza e insomma di lavorare deve essere sostenuto, tanto più che circondato dalle paure e dalle disillusioni. E chi questa voglia non ce l’ha, che sia lavoratore o imprenditore, non può essere tutelato a spese di tutti. È insomma un Natale strano, un Natale in cui essere tutti più buoni è più difficile che recitare un proverbio. E forse anche questo non è un male. Dobbiamo, tutti, essere un po’ meno indulgenti coi nostri difetti atavici mascherati da militanze e contrapposte purezze. Dobbiamo ammettere che quello strano misto di spesa pubblica a pioggia e risparmio familiare agli italiani andava bene, e che la nostra democrazia si è fondata per decenni sul mantenimento di una serie di insostenibili contraddizioni tra nord e sud, tra pubblico e privato, e tra generazioni.
L’inverno è arrivato, e chiede di rimettere in discussione stili di vita, privilegi che chiamiamo diritti, scelte di comodo, l’abitudine nazionale di dare la colpa a Berlusconi, alla casta, a Monti, all’Europa, a qualcuno che non sia noi e anzi sia nostro nemico. L’Italia che ha compiuto 150 anni siamo noi. Ha bisogno di un nuovo patto tra generazioni. Di scoprire che fare impresa e stare sul mercato non sono vezzi da provinciali che giocano a fare i grandi, ma esigenze vitali nel mondo interconnesso di oggi. Di ammettere che quel luogo fragile e bellissimo che si chiama lavoro non è quasi più nemmeno parente di ciò che, alla fine degli anni Sessanta, una classe politica meno sciatta di quella di oggi osservò attentamente, prima di scrivere lo statuto dei lavoratori. Non basterà un Natale austero dunque a farci prendere sul serio la situazione, ma può aiutare. Può aiutare a capire che per un futuro non disperato, popolato di opportunità, equo serve guardare impietosamente il passato e avere un’idea per i conflitti che animano il presente. Ed emergono, finalmente, in questo paese senza che non ha più scuse. A questo paese e agli amici, lettori, commentatori, critici ed estimatori che ogni giorno ci aiutano a migliorare il nostro lavoro e questo giornale, vanno naturalmente i nostri più sinceri e sentiti auguri di un Natale buono.
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/Buon-Natale#ixzz1hTfhOyvt
Alcuni mesi fa avevo preparato queste riflessioni (vedi sotto) per un articolo della rivista CIMO-ASMD. In realtà credo che il problema, per la classe medica, sia di conoscenze e competenze individuali (da migliorare) e di avere il coraggio di fare davvero cose diverse “senza se e senza ma” cominciando a sfatare molti miti come quello della burocrazia e andare verso la nuova era di una professione che, nonstante tutto e tutti, è sempre magnifica.
–> Un modello gestionale che fatica ad innovare, un’aziendalizzazione tuttora critica e un eccessivo numero di medici con responsabilità gestionali. E’ la fotografia scattata da una recente ricerca del CERISMAS (Centro di ricerche e studi in management sanitario) dell’Università Cattolica.
Certamente le attività gestionali e, quindi, anche quelle burocratico-amministrative connesse sono aumentate, ma è solo il 19,5% dei medici operanti in corsia quello che ha responsabilità gestionali e dunque è difficile sostenere che questo sia il vero problema. A meno che non si voglia riaccendere la stagione della polemica fra medici e manager, che era stata definitivamente chiusa nel 2003 quando il noto editoriale del BMJ affermava che questo è un problema senza soluzione, e quindi, per definizione, un problema che non ha soluzione non è un problema.
Certamente il cammino della sanità italiana verso il modello aziendale, o addirittura, di impresa, è ancora stentato e in molti casi si registra una scarsa propensione a coglierne le opportunità e i vantaggi subendo, e non gestendo attivamente, l’approccio burocratico-amministrativo, in particolare per quanto riguarda le gestione evoluta delle risorse umane. Per ovviare a questa criticità si potrebbero prevedere due tipi di carriera, come suggerito da diversi esperti, e superare la criticità connessa all’attuale modello contrattuale che obbliga i medici ad assumere responsabilità di struttura per poter conseguire un avanzamento di carriera, quando invece sarebbe più opportuno, e forse auspicabile per la qualità delle prestazioni ai pazienti, adottare modelli in grado di premiare coloro che preferirebbero continuare a occuparsi in esclusiva di pratica clinica, avendo soddisfazioni in termini di carriera e di status attraverso la professione medica.
L’attuale piano formativo del corso di laurea in Medicina e Chirurgia prevede che i laureati devono possedere “la conoscenza delle norme deontologiche e di quelle connesse alla elevata responsabilità professionale, valutando criticamente i principi etici che sottendono le diverse possibili scelte professionali e la capacità di sviluppare un approccio mentale di tipo interdisciplinare e transculturale, anche e soprattutto in collaborazione con altre figure dell’équipe sanitaria, approfondendo la conoscenza delle regole e dinamiche che caratterizzano il lavoro di gruppo, nonché una adeguata esperienza nella organizzazione generale del lavoro, connessa ad una sensibilità alle sue dinamiche, alla bioetica, all’epistemologia della medicina, alla relazione ed educazione del paziente, nonché verso le tematiche della medicina di comunità, acquisite anche attraverso esperienze dirette sul campo”.
Tutti sappiamo quanto la realtà sia profondamente diversa: i giovani dirigenti medici, al momento della loro prima assunzione, ignorano tutto, o quasi, di quelli che saranno i veri snodi di successo della loro carriera: gli asset aziendali tangibili ed intangibili, la creazione del valore, le reti del valore, la gestione evoluta delle human resoruces, la comunicazione interna, esterna e quella organizzativa e molto altro ancora.
Alla luce di queste considerazioni bisognerebbe rivedere anche il sistema di valutazione e i relativi sistemi premianti perché appare evidente che oggi non esiste una coerenza tra metodi di valutazione, l’erogazione degli incentivi e la programmazione dei percorsi di carriera. E’ indubbio comunque che le aziende sanitarie da alcuni anni avvertano l’importanza di adottare approcci nuovi e diversi per la gestione delle risorse umane portando al centro dell’attenzione le diverse professionalità come fattore critico per la qualità dell’intero sistema. Purtroppo, però, resiste ancora un orientamento burocratico che porta la maggior parte del personale degli uffici di gestione delle risorse umane a dedicarsi esclusivamente a processi meramente contrattualistici e amministrativi. Il cambiamento non può che passare per una rivoluzione che sia anche culturale, e che implichi una nuova visione dello “human resource management”.
Questa gestione evoluta delle risorse umane è ancora più importante alla luce di nuove ricerche che dimostrano come la professione medica sia cambiata profondamente. Un recente lavoro pubblicato sul Lancet, ad esempio, dimostrava come fino a pochi decenni fa l’unico modo di rintracciare importanti pubblicazioni scientifiche era quello di consultare l’Index Medicus. Oggi grazie alla immediata disponibilità in forma elettronica di dati già elaborati, articoli e linee guida, revisioni sistematiche e algoritmi decisionali, le capacità di apprendimento sono limitate al minimo necessario per accedere a questi dati, con studenti che non esercitano il ragionamento clinico e giovani medici che stanno diventando inconsciamente pigri, in quanto quasi nulla è da ricordare circa i meccanismi fisiopatologici, essendo sufficiente memorizzare la fonte di informazioni ed i processi che hanno determinato la elaborazione dei risultati. Potrebbe ciò portare ad una generazione di medici dipendenti dalla disponibilità immediata di informazioni on line e all’uso acritico di consigli pre-confezionati? Gli studi sulla acquisizione della competenza clinica hanno evidenziato che la interazione tra conoscenza e problem solving è cruciale per questo sviluppo. Il medico esperto possiede più nozioni, ricorda più dati, ed è più efficace/efficiente nel risolvere i problemi rispetto al caso clinico immediato. In medicina il ragionamento clinico richiede la conoscenza di una notevole mole di dati sulle diverse espressioni di malattia, sulle connessioni fisiopatologiche e sul rapporto rischio/beneficio per ogni decisione che si deve prendere. Il vero problema è il governo degli strumenti a disposizione: per sviluppare la competenza clinica non è sufficiente sapere dove trovare l’informazione, ma è soprattutto importante ricordarla e saperla usare in modo appropriato. Tutto ciò per evitare di creare una generazione di medici dipendenti da informazioni elettroniche superficiali, da formule opache e da opinioni individuali preconfezionate da altri, invece di professionisti che sappiano pensare con la propria testa. Come potremo continuare a non considerare questi aspetti e come potremo non individuare una diversa forma di valorizzazione di queste competenze in medici che appartengono alla stesso dipartimento indipendentemente dalla loro anzianità anagrafica e di carriera ?
Ancora : le figure professionali che non sono direttamente impiegate nell’attività assistenziale rappresentano una quota consistente all’interno delle aziende sanitarie e ospedaliere: quasi il 30% dell’intera forza lavoro, di cui il 10% è personale amministrativo, proporzione coerente con le reali esigenze di governo di un servizio pubblico in cui la buona amministrazione non è solo spreco ma garantisce equità ed efficacia all’intero sistema.
Accanto a queste figure professionali inserite stabilmente nelle aziende, resta un alto numero di lavoratori con contratto atipico (part-time verticale e orizzontale e tempo determinato), che superano il 15% del totale. I percorsi di carriera sono tutti legati all’applicazione di normative e regole di contrattazione nazionale e decentrata e, solo marginalmente, sono basati su pratiche di valutazione dei potenziali e/o sulla job evaluation. Risulta ampiamente diffusa l’applicazione di valutazione delle performance e delle posizioni, anche in attuazione della recente riforma Brunetta, ma non sempre esiste una coerenza tra metodi di valutazione, erogazione degli incentivi e la programmazione dei percorsi di carriera e, soprattutto, non si riesce a diversificare tale valutazione in base al diverso tipo di rapporto contrattuale in essere.
La problematica della valutazione appare quindi sempre più strategica e sempre meno delegabile alla sfera burocratica-aministrativa delle aziende sanitarie perché nessuna organizzazione può funzionare se gli incentivi dei suoi componenti non sono allineati alla finalità generale della organizzazione stessa, perché è noto che i comportamenti di tutti gli operatori sanitari non sono determinati dagli obiettivi generali espressi dalle leggi bensì dal sistema premiante connesso ai comportamenti stessi e solo se il sistema premiante è coerente con gli obiettivi questi saranno perseguiti.