A sorpresa la manovra di Ferragosto – trasformata in legge a metà settembre con una fiducia blindata – è andata a toccare l’universo dei tirocini. Un universo popolato innanzitutto da circa mezzo milione di stagistie poi da università, centri per l’impiego, istituti di formazione post diploma e post laurea, e naturalmente aziende private, enti pubblici, associazioni non profit in qualità di “soggetti ospitanti”. Un universo finora normato da una legge risalente alla fine degli anni Novanta(il dm. 142/1998, decreto attuativo del pacchetto Treu) e da qualche sporadica legge regionale – perché in effetti la formazione, a differenza del lavoro, sarebbe materia di competenza regionale.
La “riforma” dei tirocini, com’è stata un po’ pomposamente ribattezzata, dopo il primo mese di panico non ha introdotto nella pratica grandi cambiamenti. La modifica più forte è stata il dimezzamento della durata massima (da 12 mesi a 6) per tutti i tirocini extracurriculari, non svolti cioè all’interno di un percorso di studi. Un altro aspetto significativo è stato il tentativo di limitare l’utilizzo dei tirocini ai primi 12 mesi dopo il conseguimento del titolo di studio. Una restrizione molto forte del raggio di azione dei tirocini, che prima erano attivabili “ad libitum”, quindi anche in favore di persone diplomate o laureate da molti anni.
Questa restrizione ha sollevato le vive proteste di alcuni soggetti promotori di stage – per esempio i centri per l’impiego, negli ultimi anni abituati ad attivare tirocini per riqualificare e ricollocare disoccupati – ma sopratutto, un po’ a sorpresa, degli stessi giovani. L’interpretazione più comune, rimbalzata dalle pagine del Forum della Repubblica degli Stagisti al wall di Facebook fino ai cortili delle universita, è stata infatti che introducendo il limite dei 12 mesi tantissimi giovani sarebbero rimasti fuori gioco: gli sarebbe quindi stata sottratta una delle poche opportunità – lo stage – per mettere un piede nel mercato del lavoro.
In realtà il ministero, forse anche per questa pioggia di critiche, si è pentito quasi subito di questo paletto ed è corso ai ripari con una circolare che ha ripristinato la possibilità di fare tirocini per tutti i disoccupati e gli inoccupati. Per farlo, è stata inaugurata ex novo unadifferenziazione tra i tirocini “formativi e di orientamento” e i tirocini “di cosiddettoinserimento/reinserimento lavorativo”. La differenziazione non è presente in nessuna altra fonte normativa; ed è lecito chiedersi come possa una circolare introdurre una distinzioneche la legge di riferimento, utilizzata per 14 anni, non prevedeva affatto.
In ogni caso, guardando al contenuto concreto e non alla forma, la situazione ad oggi è la seguente. Chiunque può fare uno stage se sta compiendo un percorso formativo: in questo caso lo stage si chiama “tirocinio formativo e di orientamento”, viene ulteriormente definito come “curriculare”, e può durare fino a 12 mesi. Poi per un anno dal conseguimento di diploma, laurea e altri titoli di studio legalmente riconosciuti si può continuare a fare stage: sono sempre “tirocini di formazione e orientamento”, in questo caso “extracurriculari”, e hanno una durata massima di 6 mesi. Scaduti i 365 giorni, cessa la possibilità di fare “tirocini di formazione e orientamento” ma si apre quella di fare “tirocini di cosiddetto inserimento / reinserimento lavorativo”.
Questa possibilità è subordinata all’iscrizione dell’aspirante stagista al centro per l’impiego della sua città, nella lista degli inoccupati o in quella dei disoccupati, chiaramente a patto di possedere i requisiti richiesti: per gli inoccupati ciò significa non aver mai avuto un lavoro (eventuali periodi di stage non contano) ed essere alla ricerca da almeno un anno; per essere qualificati come disoccupati invece si deve avere avuto in passato almeno un contratto (anche breve) e anche qui essere alla ricerca. Sempre di tirocini si tratta, insomma: cambia solo la dicitura, ma la sostanza rimane quella.
La Repubblica degli Stagisti, testata giornalistica online che si occupa di questo tema dal lontano 2007, ha cercato di dividere il bambino dall’acqua sporca e di giudicare questo provvedimento normativo pezzo per pezzo. Il dimezzamento della durata massima è un provvedimento giusto, che non può che essere salutato con favore da chi sa bene che dopo poche settimane, o al massimo qualche mese, il grosso della formazione si esaurisce e lo stagista diventa pienamente operativo, in grado di dare un apporto prezioso alla struttura che lo ospita. Gli stage di un anno quindi, specialmente per i laureati, sono spesso stati un modo – dopo i primi 3-6 mesi di formazione – per poter disporre per il tempo restante di personale a basso costo.
Anche il paletto dei 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio, così come formulato nella legge, era parso assennato: forse un anno è un po’ poco, in questo periodo di crisi economica, ma un limite ci vuole. Un argine oltre cui non si possa andare, un confine al di là del quale non sia più possibile proporre stage.
Quel che ha lasciato perplessi è stato però il metodo: agire a sorpresa – e un po’ a casaccio – nell’ambito di una manovra indirizzata a tutt’altro. Decidere senza consultare nessuno, senza chiamare al tavolo le Regioni che, essendo titolari della competenza sulla formazione, si sono comprensibilmente sentite scavalcate – tanto che la Toscana ha da subito annunciato un ricorso alla Corte costituzionale. Far diventare le nuove disposizioni immediatamente operative, senza prevedere qualche mese di cuscinetto per permettere a tutti i soggetti interessati di capire il nuovo perimetro e adeguarsi. E poi l’aspetto comico, quasi grottesco, dell’utilizzare una circolare per inventare quella differenziazione inesistente che potesse permettere, senza perderci – troppo – la faccia, di reintrodurre la possibilità di fare stage anche dopo i famosi 12 mesi dal diploma o dalla laurea, semplicemente cambiando casacca. Si è fatto rientrare dalla finestra, con un trucco terminologico, quello che era stato fatto uscire dalla porta. La facile profezia della Repubblica degli Stagisti è che al 13esimo mese la gran parte dei neodiplomati e neolaureati ancora a spasso correrà a iscriversi al centro per l’impiego: perchè non dovrebbe?
Come troppo spesso accade in Italia, gattopardescamente si cambia tutto perché nulla cambi.